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Semplificare non sempre è un bene!

Prima superiore, istituto Tecnico, in supplenza. 

I ragazzi e le ragazze avevano  il compito di prendere un capitolo di storia e schematizzarlo.

Moltissimi, davvero moltissimi, hanno fatto una gran fatica. 

Leggevano le prime frasi, senza leggerle completamente, davano un’occhiata veloce alle parole in grassetto e poi dicevano di non aver capito. Alcuni leggevano le prime parole e affermavano che il testo non avesse senso, altri iniziavano a riassumere senza avere una visione di insieme del contenuto e trascrivevano parole senza capire di cosa si stesse parlando. 

“Non ho capito” o “ma che palle non si capisce nulla” e, appena consigliavo loro di riprendere, con calma, di rileggere con più attenzione tutto,  di provare a concludere il primo paragrafo per farsi un’idea generale, affermavano alla fine “Ahh.. ora ho capito!”

Un ragazzo, con il foglio ancora bianco ad un certo punto dice: “Posso cercare uno schema su google, qui non si capisce nulla.  Su Google è più semplice!” 

Ecco questo è il punto forse. Quel testo non era affatto difficile, era un testo, anzi, anche visivamente appetibile, con immagini, commenti, parole in evidenza. 

Spesso però in molte scuole vedo ragazzi e ragazze che non sono abituati ad affrontare contenuti complessi, non dico complicati, semplicemente complessi, compositi. Per timore o disabitudine cercano una semplificazione che semplificheranno a loro volta, riducendo tutto a qualche parola qua e là su un foglio, da imparare a memoria, senza connessioni.

Ma perché? A volte credo che la scuola abbia incentivato un’estrema semplificazione, fino a ridurre non solo la complessità, ma anche la realtà. Non si analizzano più i fatti nel loro contesto, connessi ad altri eventi, nella loro ricchezza, ma si parcellizzano sempre di più, fino a rendere il sapere vuoto, povero, minimale, parziale.  

Non si permette più di ragionare, di comprendere un concetto, di rielaborarlo, di sostarci sopra per un po’.  Si teme l’attesa. Si evitano come la peste i testi lunghi, si chiede sempre meno “perché, altrimenti, non fanno”.  

Ma questo che prezzo ha? La semplificazione dovrebbe essere un processo, non il punto di partenza. 

Proviamo, come educatori, insegnanti, adulti a riprendere il valore del pensiero non binario, semplicistico, impariamo a chiedere di fare uno sforzo maggiore, perché altrimenti perderemo la bellezza del ragiornamento. Già oggi vediamo i danni enormi di pensieri che appiattiscono, che non sanno argomentare, poveri nel contenuto e nella forma. 

E. Morin scrisse: “Ormai a costituire il problema non sono solo gli errori di fatto (d’ignoranza), di pensiero (dogmatismo), ma l’errore di un pensiero parziale, l’errore del pensiero binario che vede solo o/o, incapace di combinare e/e, nonché più profondamente, l’errore del pensiero riduttore e del pensiero disgiuntivo ciechi ad ogni complessità”. 

Ecco, vorrei più sfumature, più ombre, più dubbi, più profondità, più curiosità!

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